Cinquant’anni fa vedeva la luce la dream car più famosa di sempre. Capace di proiettare il suo marchio nell’olimpo dei costruttori di auto sportive, di far invecchiare di colpo tutte le concorrenti, di sedurre vip in ogni angolo del pianeta e di far sognare generazioni di appassionati. In questo mezzo secolo, nessun’altra automobile è riuscita a fare altrettanto

Poche auto hanno saputo riscuotere consensi pressoché unanimi come la Lamborghini Miura. Bellissima e performante, piace davvero a tutti. Eppure qualche difetto lo ha, non è certo quell’auto “perfetta” che Ferruccio Lamborghini, all’inizio della sua avventura automobilistica, ambiva a costruire. Ma come lui stesso era solito ripetere, “Guidare la Miura è come uscire con la donna più bella del mondo, alla quale tutto si può perdonare”.

In questi giorni ricorre il cinquantesimo anniversario del suo debutto, avvenuto al Salone di Ginevra nel marzo 1966, anche se il telaio con la meccanica era stato presentato cinque mesi prima al Salone di Torino (vedi AutoCapital n.11/2015). Gli eventi che portarono alla nascita della Miura furono in parte dettati dal caso: non si trattò, infatti, di un’auto fortemente voluta e ponderata dalla dirigenza Lamborghini (Ferruccio prediligeva gran turismo più confortevoli), ma nacque dall’entusiasmo degli ingegneri Paolo Stanzani e Giampaolo Dallara, che proposero di realizzare un telaio di ispirazione corsaiola, con il motore in posizione posteriore-centrale disposto trasversalmente. Lamborghini diede il suo placet, mettendo però in chiaro che si sarebbe trattato di un mero esercizio tecnico per dare sfoggio delle potenzialità dell’azienda, senza esiti produttivi.

Tuttavia il clamore che quel telaio suscitò, portando la neonata e semisconosciuta Lamborghini alla ribalta delle cronache, spiazzò Ferruccio, che decise quindi di dare un seguito al progetto, per realizzare una supercar da produrre in una cinquantina di esemplari. Si pose quindi l’esigenza di far confezionare un “vestito“ all’altezza di quel telaio, e la scelta cadde su Bertone, che promise a Lamborghini che avrebbe realizzato “una scarpa adatta a quel piede”. E che scarpa: Marcello Gandini disegnò, a tempo di record, una linea che rappresenta una pietra miliare del design. Per il nome della vettura, fu scelto per la prima volta quello di una razza di tori da combattimento, inaugurando una tradizione di nomenclatura ispirata alla tauromachia che dura ancora oggi.

E se già il solo telaio aveva riscosso tanto successo, non è difficile immaginare quello che accadde in quell’edizione della rassegna svizzera, nella quale la Miura fu mostrata per la prima volta al pubblico (peraltro in uno sfrontato, quanto azzeccato, color arancio): una sorta di isteria collettiva che la fece divenire nel giro di poche ore la protagonista assoluta, offuscando le altre pur belle automobili presenti, con lo stand letteralmente preso d’assalto; questo fece subito capire che, per soddisfare tutte le richieste, non sarebbero certo bastati i cinquanta esemplari preventivati alla vigilia.

Ma lì iniziava la parte difficile, perché quello presentato a Ginevra era poco più di un prototipo. Lo sviluppo della vettura durò per tutto l’anno, periodo nel quale Lamborghini riuscì ad amplificarne ulteriormente la fama, con operazioni teatrali come la comparsata al Gran Premio di Monaco, dove la Miura fece da apripista guidata da Bob Wallace, il collaudatore neozelandese che ne stava curando la messa a punto. La vettura si presentava con delle credenziali pazzesche per l’epoca: oltre alla linea mozzafiato, aveva soluzioni all’avanguardia, come il telaio scatolato e la disposizione centrale-trasversale del motore che, progettato da Giotto Bizzarrini, si poneva come il V12 più raffinato sul mercato (aveva quattro alberi a camme contro i due di quello Ferrari). La potenza di 350 CV garantiva prestazioni da primato, con una velocità massima intorno ai 280 km/h, peraltro non alla portata di tutti, visto che l’avantreno tendeva ad alleggerirsi alle alte velocità.

A fronte di liste di attesa in costante aumento, le consegne iniziarono nel gennaio del 1967. Le prime Miura presentavano ancora qualche “difetto di gioventù”, che tuttavia non ne scalfì il successo: nel solo 1967 ne vennero prodotte 125, a fronte di una quantità di ordinativi più che doppia. La volontà di migliorarla fece sì che all’inizio dell’anno successivo venisse approntata una serie di modifiche che diede origine alla versione “Model Year 68”. Lo spessore delle lamiere del telaio passò da 0,9 ad 1 mm; all’interno il volante ed il pomello cambio in legno furono sostituiti da componenti in pelle, e le levette in metallo e bachelite rimpiazzate da interruttori di plastica. Le cornici del parabrezza e dei fari divennero cromate anziché nere, furono adottati nuovi marchi “Bertone” e rinnovato il disegno dei pannelli porta. Nel 1969 iniziò la produzione della versione “S”: esternamente era identica alla P400 modello’68, e le novità si trovavano nell’abitacolo, dove si assistette ad un generale miglioramento delle finiture, all’adozione dei vetri elettrici e di una scatola portaoggetti sul tunnel centrale; cambiò inoltre la forma degli appoggiatesta e della maniglia del passeggero, ed il sistema di apertura dei cofani venne semplificato. A livello meccanico, l’ampliamento dei condotti di aspirazione consentì di guadagnare 20 CV. Per migliorare le doti stradali, furono adottati pneumatici “215/70“, e a partire dal 1970 dischi autoventilanti. Con 338 esemplari prodotti, la “S” rappresentò la versione di maggior successo commerciale.

Al Salone di Torino del 1971 fece infine il suo debutto la Miura “definitiva”, la “SV“. Per la prima volta venne operato un restyling estetico: nel frontale gli indicatori di direzione vennero integrati nel paraurti, mentre furono eliminate le caratteristiche ciglia intorno ai fari. Le fiancate della vettura divennero più “bombate“, a causa dell’allargamento dei passaruota per ospitare pneumatici più larghi, e furono cambiati i gruppi ottici posteriori. Con queste modifiche la linea guadagnò in aggressività, ma perse un pizzico della purezza stilistica delle prime versioni. L’interno rimase invariato, mentre a livello meccanico ci fu un aumento di potenza di 15 CV e soprattutto si pose rimedio ad un problema congenito della Miura: la lubrificazione del cambio fu separata da quella del motore; questo permise anche di adottare un nuovo differenziale autobloccante. La “SV” fu prodotta in soli 150 esemplari, che la rendono la versione più rara ed ambita. Al momento della sua uscita di produzione a fine 1972, la Miura era ancora sulla breccia e richiesta sul mercato, ma la Lamborghini preferì puntare tutto sulla avveniristica Countàch.

In sei anni furono in totale 763 gli esemplari di Miura prodotti: molti di più di quanti ci si aspettasse inizialmente, e quindi sicuramente tanti per la Lamborghini dell’epoca, ma sufficientemente pochi per farne oggi una delle storiche più desiderate. La vicenda produttiva della Miura porta con sé anche qualche rimpianto, come la versione Roadster, di cui nel 1968 fu presentato un prototipo che, nonostante l’ottima accoglienza, inspiegabilmente non ebbe alcun seguito; o come la versione da competizione “Jota” del 1970, sviluppata da Wallace, che però non venne mai impiegata in gara e finì distrutta in un rocambolesco incidente; tuttavia alcune soluzioni sperimentate sulla Jota verranno poi utilizzate sulla SV e soprattutto sulle cinque Miura “SVJ”, allestite su richiesta di alcuni clienti (il primo dei quali fu lo Scià di Persia), ispirandosi alla Jota.

La Miura è stata indubbiamente l’auto più ambita della sua epoca, della quale rappresenta un’indiscussa icona. La sua linea senza tempo, oggi come allora, viene immediatamente riconosciuta anche da chi non è appassionato. È apparsa in decine di film, e la lista di proprietari famosi è senza eguali: regnanti, industriali, personaggi dello spettacolo, tutti sedotti dal suo fascino. Ma la Miura ha vissuto anche periodi bui, come nella seconda metà degli anni ‘70, quando, ormai fuori moda e penalizzata dagli effetti della crisi energetica, subì una forte svalutazione che la fece finire in mano a personaggi poco consoni al suo blasone. Tuttavia, dagli anni ottanta è iniziato un costante recupero di immagine e di quotazioni, fino ad arrivare agli exploit dell‘ultimo decennio, in cui ha raggiunto valutazioni da capogiro, con un trend di crescita che pare non avere freni.

Auto importantissima a livello storico, ha mutato per sempre la storia e la natura produttiva della Lamborghini, trasformandola nel costruttore di supercar estreme che è ancora oggi, e appagando l’ambizione di Ferruccio di divenire l’anti-Ferrari per eccellenza; ma ha avuto degli effetti sull’intero mondo delle auto sportive: le sue peculiarità tecniche hanno fatto scuola, consacrando definitivamente la soluzione a motore centrale, alla quale tutti i marchi sportivi si sarebbero adeguati negli anni successivi. Questa grande carica di innovazione derivava anche dalla giovane età di chi l’aveva creata: Dallara, Stanzani, Wallace e Gandini erano tutti “under 30” quando progettarono la Miura, che costituì un trampolino di lancio per le loro carriere. Anche quest’auto, quindi, può essere in un certo senso considerata figlia del grande fervore che stava attraversando la gioventù in quegli anni. Ma soprattutto la Miura rappresenta un’eccezionale ambasciatrice del Made in Italy nel mondo: d’altronde, un simile capolavoro tecnico-stilistico poteva nascere, ce lo si conceda, soltanto dall’estro italiano, così come la sorprendente vicenda industriale che l’ha generata poteva realizzarsi solo in quella terra permeata di passione per i motori che è l’Emilia.

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Claudio Ivaldi

Claudio Ivaldi

Giornalista, esperto di auto sportive italiane, con una predilezione per i marchi emiliani, di cui ama approfondire la storia. La passione per le belle auto gli è nata durante l'infanzia, proprio grazie ad AutoCapital.

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