Essere autista con la patente di 3° grado, all’inizio degli anni Cinquanta, permetteva di trovare un posto di lavoro con facilità. Quel documento solo, infatti, permetteva di guidare autocarri con rimorchio e, siccome l’autoarticolato era vitale alle aziende che iniziavano a distribuire sui mercati i loro prodotti, il posto di autista diventava importante. A tal punto che chi per mestiere guidava autocarri con rimorchio godeva di un trattamento economico migliore rispetto agli addetti ad altre mansioni.

Era obbligatorio per legge, all’epoca, che fossero due gli autisti di un camion con il rimorchio. Il primo, di solito più anziano, aveva maggiore esperienza di guida mentre al secondo, meno esperto, erano affidate le mansioni collaterali: inserire nel gancio di traino della motrice il timone del rimorchio, sostituire la gomma bucata, sobbarcarsi la parte più faticosa nelle operazioni di carico e scarico e alzare o abbassare le sponde del Tir.

Le modalità del trasporto su gomma, allora, erano molto faticose. Non esistevano le autostrade se non in una minima parte, la velocità massima si aggirava intorno ai 70 km/h, lungo il percorso si attraversava sempre il centro dell’abitato, la tangenziale era un termine sconosciuto e la media oraria doveva tener conto di biciclette, moto e motorini. Si era certi che una pattuglia della Polizia Stradale fosse in agguato lungo il tragitto, spesso nei pressi di una pesa pubblica per scoprire il sovraccarico, nell’abitacolo il rumore quasi impediva il dialogo, il sedile di guida veniva integrato da un cuscino per attenuarne la scomodità, il pedale della frizione era durissimo, il volante diventava un attrezzo per sviluppare i muscoli, l’impianto di riscaldamento non esisteva.

Il viaggio degli autisti Luigi e Francesco partiva da Cremona ed era diretto a qualche località situata nei dintorni di Reggio Emilia. Trasportavano all’andata sacchi di granoturco destinati a qualche mulino e al ritorno botti di vino, caricate nella cantina sociale della zona di produzione del Lambrusco. Il percorso era quasi sempre lo stesso: da Cremona a Casalmaggiore, poi a Viadana dove si attraversava il Po su un ponte di barche in direzione di Boretto, Poviglio per poi giungere alla meta nel Reggiano. Partenza alle quattro del mattino e ritorno nel pomeriggio, in tempo per poter procedere alle operazioni di scarico del vino e a quelle di carico del mais per l’indomani.

Quando al cancello della piccola azienda commerciale cremonese riappariva il muso del Taurus OM era tutto un correre di operai che predisponevano chi le canne, chi la pompa, chi le scale di legno per arrivare all’altezza dei “bottoni” (grandi botti) come venivano chiamati i contenitori allineati lungo le pareti della cantina. Gli autisti venivano accolti nella casa del titolare della ditta, dove veniva loro offerto, all’ora della merenda, un piatto di spaghetti in bianco che mangiavano accompagnandoli con del pane.

Tutto filava liscio in quanto le fasi del lavoro erano affidate sempre alle stesse persone, le quali avevano acquisito capacità e precisione. Ma in un pomeriggio dell’autunno del 1952 le ore passavano e il camion non arrivava. Nella lunga attesa in azienda venivano fatte varie ipotesi sul ritardo, quando il muso del Taurus apparve al cancello. Era come un elefante ferito. I fanali erano per metà pieni d’acqua, sul cofano a sui grandi parafanghi neri attiravano lo sguardo chiazze di fango, foglie bagnate e rametti. Osservando meglio si era notato che il muso non era più in asse con la cabina. Il camion entrò in cortile a fatica, delle botti restavano assi e cerchi di ferro. Soltanto una era ancora intatta appoggiata alla cabina: gigantesca, scura, sporca di fango. “Ci ha salvato la vita”, hanno raccontato gli autisti. Con la sua mole aveva protetto la cabina di guida durante l’uscita di strada, mentre il vino scorreva nel ruscello.

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Sperangelo Bandera

Sperangelo Bandera

Giornalista professionista, per 18 anni corrispondente del Corriere della Sera, oggi è Vice direttore di AutoCapital. Mosso dalla passione in tutto ciò che fa, scrive e descrive solo le automobili che guida per amore: conta forse altro nella vita?

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