Prima che avesse inizio il fenomeno della diffusione delle automobili, i pochi che ne possedevano un esemplare erano pervasi da un tale senso di superiorità da non far loro ammettere mai di avere torto neppure se investivano un ciclista o un pedone. Lo conferma l’incidente avvenuto nel 1953 in una località del Cremonese

Nel 1953, mentre Edmondo Hillary stava conquistando l’Everest, la cima più alta del mondo, nella piccola frazione di Persico, una località di totale pianura assediata dalle pannocchie della campagna cremonese, la vita scorreva scandita dai ritmi lenti dell’agricoltura. Nonostante pochi residenti, la chiesa parrocchiale era di notevoli dimensioni e tra i tetti svettava il campanile, i cui rintocchi segnalavano le ore e soprattutto il mezzogiorno, che per i contadini sparsi nei campi era il segnale del desinare. Di fronte, nella sede delle scuole elementari, venivano istruiti i bambini che provenivano dalle vicine cascine raggiungendo le aule a piedi o in bicicletta. Le due strutture erano separate da una strada, all’epoca appena asfaltata, che disegnava una curva quasi cieca dalla traiettoria a parabola, il che metteva spesso in difficoltà, anche a causa della stretta sede stradale, i veicoli, pur rari, che si incrociavano in quel tratto. Il paese era abitato per lo più da contadini, ma contava anche un numero ristretto di proprietari terrieri, che contrassegnava due distinte classi sociali: quella dei numerosi poveri e quella dei pochi e arroganti ricconi. Uno di questi possidenti, che era stato congedato, finita la guerra, col titolo di maggiore dell’Esercito, occhiali scuri, giacca e cravatta sempre, modi burberi, diploma di ragioniere, frequentatore assiduo della parrocchia e aspirante scrittore, fu protagonista di un diverbio che i vecchi del luogo, nella loro innata sudditanza, ricordano ancora oggi con un certo timore. Il 29 maggio, giorno in cui a Lugano Fausto Coppi, di cui era un accanito tifoso, vinceva il titolo mondiale di ciclismo su strada, il maggiore decise di recarsi al cimitero per far visita alla tomba della madre, da poco scomparsa. In genere egli raggiungeva il camposanto, che non distava molto, con una bicicletta da viaggio, nera, assumendo un’espressione severa che incuteva soggezione. Quel giorno, invece, dovendo poi raggiungere Cremona per accordarsi con un amico sul periodo di vacanza da trascorrere a Ponte di Legno, preferì servirsi della sua Fiat 500 C di colore blu scuro e con le gomme col fianco bianco, sempre luccicante. Imboccando contromano la fatidica curva a parabola, tra la scuola e la chiesa (scorrettezza che era solito compiere per la quasi totale mancanza di traffico), investì un contadino che in bicicletta stava muovendosi in direzione opposta. A causa della bassa velocità con cui il maggiore stava affrontando quella curva, fortunatamente non vi furono conseguenze per il malcapitato, il quale, rialzatosi, venne preso a male parole dall’investitore. Al che il poveraccio tentò di fargli presente che era lui, il maggiore, in torto in quanto viaggiava palesemente contromano. I toni si accesero in un crescendo che fece perdere le staffe al maggiore, mentre dalle finestre, richiamate dalle grida, si affacciavano, incuriosite, delle persone. Siccome non riusciva a mettere sotto l’investito anche sul piano dialettico, poiché quello si difendeva con argomentazioni ineccepibili, mentre le urla del maggiore rompevano il silenzio della campagna, per uscire vincitore, pronunciò ad altissima voce le parole che ancora oggi riecheggiano tra i più anziani: “Taccia! Che io sono ragioniere e lei non è niente!”.

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Sperangelo Bandera

Sperangelo Bandera

Giornalista professionista, per 18 anni corrispondente del Corriere della Sera, oggi è Vice direttore di AutoCapital. Mosso dalla passione in tutto ciò che fa, scrive e descrive solo le automobili che guida per amore: conta forse altro nella vita?

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